La formazione
Iscritta all’Università degli studi di Firenze, Marta Lonzi si laurea in architettura nel 1963 presso l’Istituto di urbanistica diretto da Ludovico Quaroni e quello di Scienza delle costruzioni di Riccardo Morandi. La sua tesi di laurea “Progetto di ponte sull'Arno in corrispondenza del quartiere La Piaggia in Firenze e della sistemazione delle zone adiacenti” vince il premio U.I.S.A.A. 1963 (Unione Italiana Applicazione Acciaio).
Trasferitasi a Roma dopo il matrimonio, cerca di conciliare la nuova dimensione di madre con quella di architetto, affrontando i primi lavori da professionista e cercando al contempo di mantenere i contatti con il gruppo dell’università. Il rapporto di stima con Quaroni si trasforma in profonda amicizia, testimoniato anche dalla condivisione degli artisti a lei più vicini, come Gallizio e Consagra. Nel 1965 è coinvolta nel «Corso sperimentale di preparazione urbanistica» organizzato ad Arezzo – sotto la direzione dallo stesso Quaroni – dal Centro studi della fondazione Olivetti: uno dei momenti fondativi della pianificazione urbana italiana. Nel 1966 il testo La città nuova, da lei elaborato con M. Cusmano, B. Gabrielli, R. Mazzanti, R. Rozzi, è selezionato dal Premio Olivetti.
L'approfondimento dei temi urbanistici proseguirà nelle ricerche sulla Gallura svolte con Italo Insolera per Italia Nostra (1965-70).
Nel 1967 rientra in università come assistente volontaria presso la cattedra di Composizione architettonica della facoltà di Architettura di Roma, diretta prima da Alberto Samonà e, dopo un anno, da Ludovico Quaroni. Ma la passione per l’attività didattica si scontra con il crescere del senso di estraneità allo spirito e ai metodi della progettazione vigenti che la porta ad abbandonare l'università, nel gennaio 1973, con una lettera indirizzata allo stesso Quaroni: “penso che non si possa condurre fino in fondo una seria sperimentazione se non viene riconosciuta la necessità di partire da un background culturale veramente aperto a ogni possibile significato e valore… L’autenticità del processo diventerà la verifica alla sperimentazione”.
“…si parlava di progettazione ma si taceva l’esperienza del progettare. Ogni necessità poteva trovare il suo momento teorico. Poiché il momento soggettivo… viene censurato dall’architetto, lontano mille miglia dal rivendicarlo come passaggio di autenticità che riscatti il suo fare. … Per me venne fuori l’impossibilità oggettiva di potere spostare l’interesse generale dall’oggetto al processo, mentre tutti erano posseduti dal fascino dei prospetti, delle piante, delle sezioni.”
(ML 1982)